Di
Aristide
Fiore
Questa
sera, a Cava
de’ Tirreni,
presso la sede del Social Tennis Club, avrà luogo un evento dedicato alla solidarietà, con lo
spettacolo Traccia
di mamma: Chi aiuta un bambino aiuta il mondo,
scritto, diretto e interpretato da Antonello
De Rosa e liberamente tratto da Mamma: piccole tragedie minimali di Annibale Ruccello (1956-1986). L'incasso
sarà interamente devoluto all’associazione OASI – ONLUS di
Nocera Inferiore, impegnata nell'assistenza
e nella promozione della ricerca nel campo dell'ematologia e
dell'oncologia in età pediatrica.
Abbiamo chiesto all'attore-regista salernitano di parlarci
dell'allestimento e dell'iniziativa a esso collegata.
Nel
corso della sua carriera artistica si è già occupato di
solidarietà?
«Da
circa quattordici anni sono responsabile per la teatroterapia presso
l'UILDM (Unione Italiana per la Lotta alla Distrofia Muscolare).
Inevitabilmente ho sviluppato una forte sensibilità verso le
problematiche inerenti la salute. L'incontro con l'OASI onlus è
stato casuale. Ho visitato il Centro di
oncoematologia pediatrica
dell'ospedale Umberto I di Nocera Inferiore, con il quale
l'associazione collabora,
e sono rimasto profondamente colpito dalla realtà in cui operano. Mi
son detto: «Davvero siamo incapaci di fare qualcosa?» e ho deciso
di sposare la loro causa, mettendo a loro disposizione la mia
professionalità per allestire spettacoli il cui ricavato sia
interamente impiegato per le finalità dell'associazione. Ciò
implica l'individuazione di spazi, risorse e figure professionali che
si rendano disponibili a titolo gratuito. Sotto questo aspetto ho
potuto contare sulla loro collaborazione, fondamentale per la
realizzazione di questo progetto e soprattutto per assicurarne la
riproposizione.»
Salta
all'occhio l'analogia fra la sua esperienza con i disabili e quella
di Francesco Silvestri, un attore e drammaturgo la cui carriera
teatrale iniziò con l'animazione in carceri e strutture dedicate ai
diversamente abili, il quale tra l'altro ebbe modo di collaborare
proprio con Ruccello.
«Non
si tratta dell'unico tratto comune: fra me e Silvestri, al quale sono
legato da grande amicizia, è avvenuto un vero e proprio passaggio di
consegne, prima quando propose di affidarmi la rappresentazione di Episcopus di P. Puppa con la regia di Pasquale De Cristofaro,
dopo averlo portato a un successo consolidato attraverso numerose
repliche, e poi quando interpretai il ruolo principale nel suo Fratellini.»
In che modo lo spettacolo si collega alle tematiche poste in luce da questa iniziativa, dedicata ai piccoli degenti?
«Innanzitutto si tratta di uno spettacolo ben collaudato, che mi vede impegnato da circa vent'anni. Per quattro o cinque anni ho interpretato l'originale di Ruccello, inizialmente con tre attrici e in seguito da solo. “Mamma” si compone infatti di quattro monologhi, pronunciati da altrettanti personaggi: la mamma che racconta le fiabe, la mamma che impazzisce perché chiusa in un manicomio, la mamma sempre attaccata al telefono, che confonde la sua vita quotidiana con le telenovelas che vede in tv, e infine la mamma timorata di Dio, che non accetta la gravidanza della figlia ancora non sposata e in giovane età. A un certo punto ho deciso di trarne una storia incentrata su un unico personaggio, basato su quello della madre rinchiusa in manicomio e su quello della madre bigotta. Nel compiere questa operazione, ho attinto molto dalla mia esperienza di teatroterapia nei centri di igiene mentale e in altri luoghi nei quali si entra in contatto con una sofferenza che ho preferito rappresentare indirettamente, veicolandola attraverso la messa in scena. Il disagio del quale sono stato testimone deriva anche da situazioni che coinvolgono i minori. Prima di venire a contatto con la realtà nella quale opera l'Oasi, ho operato presso strutture che accolgono minori a rischio e nell'ambito di quell'esperienza mi sono imbattuto in una ragazzina scacciata dalla famiglia a causa di una gravidanza: era un caso di infanzia bruciata, una persona poco più che adolescente, resa precocemente adulta dalle terribili circostanze nelle quali si era trovata, che, forse, proprio in virtù di ciò, si sforzava di andare avanti e tenere il bambino. L'analogia col dramma del personaggio che interpreto è evidente. Sullo sfondo si intravede quello stesso velo di ipocrisia che riesce persino a offuscare la sfera affettiva. Nella realtà, come nella finzione, si ha a che fare con una manifesta incapacità di essere madre, che si ripercuote sulla figlia. Nello spettacolo, il delirio della madre folle e bigotta si spinge fino alla blasfemia, all'identificazione con la Madonna, della quale crede di essere la reincarnazione. Dialogando con la statua della Vergine, la madre per eccellenza, le affida l'anima perduta della figlia, nella consapevolezza di non essere riuscita a salvarla, avendone anzi determinato il suicidio.»
«Direi di sì, sia in quanto riferito al materiale di partenza sia quale sintesi di personaggi e situazioni comuni e tuttavia emblematici. La funzione del teatro è infatti non quella educativa, ma piuttosto quella rieducativa: deve mirare al recupero dei valori.»
Interpretare personaggi femminili richiede abilità non comuni, a meno che non lo si intenda, riduttivamente, come recitazione en travesti. Qual è il fascino di questa sfida?
«Come mi disse una volta Francesco Silvestri, per interpretare un personaggio femminile non basta “fare la donna”: bisogna “esserlo”. La figura dell'attore ha infatti una connotazione dionisiaca. L'attore è come gli angeli, è asessuato, e in quanto tale è in grado di trascendere la propria natura. I personaggi femminili sono resi interessanti dalla loro psicologia, più complessa di quella maschile. Inoltre mi affascina la comunanza fra la donna e la figura dell'attore, entrambe capaci, ciascuna a suo modo, di generare, di dar vita a altri esseri umani o a personaggi.»
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