Potremmo decidere, per una volta, di stare al gioco e lasciare che uno strano personaggio ci accompagni in un curioso viaggio notturno, dalla tangenziale est di Roma allo spazio intergalattico, in cerca di Dio, e caso mai incontrare un alieno, qualcuno che magari possa finalmente fornire delle risposte adatte a dare un senso al quel convulso andirivieni tra un posto e l'altro, da una meta a quella successiva, che chiamiamo “vita”. Potremmo farlo davvero in qualche modo, se ci capitasse di assistere a "Luna park. Do you want a cracker?", uno spettacolo scritto, diretto e interpretato da Simone Perinelli, presentato lo scorso 1 marzo a Salerno dalla compagnia Leviedelfool di Viterbo al S. Apollonia Space di Salerno, nell'ambito della rassegna teatrale Out of bounds curata da Licia Amarante e Antonella Valitutti. Una specie di idiot savant, capace di ricordare una grande quantità di nozioni delle quali tuttavia non sembra poter comprendere a pieno il significato, si lascia trasportare e trascina con sé gli ascoltatori in un flusso di parole intercalato da tic verbali e motori. Ogni inceppamento del suo discorso sgangherato e ridondante può comportare un salto in un altro mondo, ogni parola può essere una chiave per entrarvi e passare per esempio dall'uscita per Viale Etiopia all'Etiopia, una delle terre sulle quali si è fantasticato per molti secoli e che, nell'immaginazione del nostro personaggio, sarebbe il posto dal quale si può osservare la maggiore quantità possibile di stelle, ma, grazie a un immaginario cannocchiale potentissimo, anche il futuro e persino Dio. Ma come fare, se l'Etiopia resta un posto lontano e in città si vedono più stelle stampate sui biscotti che in cielo e l'orizzonte coincide con i viadotti della tangenziale? Basta deviare il solito percorso e un rettilineo apparentemente interminabile diventa una corsia preferenziale per proiettarsi nel cosmo e passarlo al setaccio. Sembra che tutti siano alla ricerca di Dio con ogni mezzo: tutti cercano un segno che ne confermi l'esistenza e persino l'autovelox risponde allo scopo segreto di fotografarlo mentre passa sulla tangenziale. Ciononostante Dio non si trova. C'è solo un uomo accanto a dei mulini a vento, sulla faccia nascosta della Luna, un posto dove il vento manca. Dov'è la follia, in colui che in quei mulini vede dei giganti da combattere o piuttosto nella loro assurda collocazione? Di sicuro il senno perduto non è finito lassù: c'è finita la follia stessa, emarginata da una società schizofrenica, che cerca il divino o attende almeno un messaggio di speranza da un altrove indefinito e intanto si perde in una corsa sfrenata verso un progresso infinito, mentre intere civiltà nascono e muoiono, nuove invenzioni ne soppiantano altre e tutto sembra muoversi secondo un ossessivo "su e giù", come sulle montagne russe, come le auto che sfrecciano sulla tangenziale.
https://www.leviedelfool.com/
In assenza di Dio, inesistente o latitante, ci si sente autorizzati a "creare le cose": l'umanità si è lanciata nel vortice delle invenzioni, imitata dal nostro personaggio, che realizza o semplicemente evoca il suo piccolo mondo coi gesti, proprio come farebbe un bambino o un attore. Ecco quindi apparire la Lola: un cane a cui vengono attribuite credenze e aspirazioni, un improbabile Sancho Panza, che a volte però sembra quasi più visionario del suo stralunato padrone. Un Don Chisciotte metropolitano, che si imbatte continuamente in avventure e sfide ingigantite dalla sua imperfetta comprensione della realtà, e ,come il suo omologo letterario, vive episodi paradossali o situazioni ridicole, fino all'agognato incontro con un alieno. È il momento delle domande che non avevano mai trovato risposta, anche se, per rompere il ghiaccio, non si trova di meglio che offrire uno snack in uno stentato inglese. Che ne è stato di Dio? È forse scappato per lo spavento, dopo il big bang, e se ne sta a guardare il mondo da lontano, a osservare coloro che agiscono, come qualcuno che se ne stia affacciato sulla tangenziale? Coloro che agiscono, dal canto loro, non sono forse tutti in preda a qualche mania, che induce ognuno a lanciarsi contro i propri mulini a vento? E infine chi è, veramente, questo alieno? Forse è semplicemente qualcuno con cui poter parlare: l'altro, lo sconosciuto, lo spettatore.
L'epoca
d'oro della canzone napoletana e la tradizione dei café chantant
rivivono in “Rosy D’Altavilla. L’amore oltre il tempo”, uno
spettacolo scritto e diretto da Paolo Vanacore, interpretato
magistralmente da una poliedrica Carmen di Marzo, che, grazie alla
rassegna Out of Bounds, curata da Licia Amarante e Antonella
Valitutti, giunta alla quarta edizione, è stato riproposto con
successo al pubblico salernitano.
Al
centro della vicenda rappresentata c'è Rosetta, impiegata come
bidella in una scuola di Napoli; una donna sola di umile condizione,
che custodisce gelosamente il ricordo dettagliato di una vita
precedente: uno strano segreto che, se rivelato, potrebbe procurarle
un grande imbarazzo o addirittura dei guai. L'amore tuttavia apre
tutte le porte. A Rosetta basta notare un alunno che cerca
continuamente di allontanarsi dall'aula per incontrare una ragazzina
che diserta le lezioni con pretesti analoghi, per aprire l'armadio
dei ricordi della sua vita anteriore e confidarsi col ragazzo. Nessun
altro è in scena. Farci immaginare, quasi avvertire la presenza
dello studentello è un compito interamente affidato alla bravura e
alla naturalezza dell'attrice. L'accenno al proposito di fare la
serenata alla ragazzina rivela le doti canore della bidella, che
ormai non può più trattenersi dal cantare e confessare il suo
segreto, quasi per giustificare il talento riposto in una persona
comune, anonima, da lei ritenuto evidentemente ancor più
improbabile.
Una
ricerca condotta da Alessandro Panatteri, autore e esecutore delle
musiche originali, ha
permesso il recupero di canzoni di un secolo fa, le quali, pur avendo
riscosso grande successo all'epoca e pur possedendo la stessa qualità
di altre composizioni tuttora note e continuamente eseguite con
invariato riscontro, sono scomparse innanzitutto dalla memoria
collettiva, sopravvivendo soltanto attraverso qualche vecchio
spartito ingiallito. A partire da queste composizioni, tredici per
l'esattezza, cantate ottimamente dal vivo dalla stessa Carmen
di Marzo, accompagnata al pianoforte da Panatteri e al flauto da
Fabio Angelo Colajanni, si dipana la storia di Rosy D'Altavilla, la
chanteuse che visse due volte. Smessi i panni di Rosetta, sostituiti
rapidamente a scena aperta da quelli di una diva della canzone sul
finire della belle époque, è la stessa protagonista, che si
racconta. Una giovinetta di più di cent'anni fa, anche lei di umili
origini, rivela le sue doti canore grazie all'abitudine di cantare
spontaneamente, spinta dalla gioia di vivere e, più tardi, anche
dall'amore per Alfonso. Notata da una coppia di impresari del café
chantant, si ritrova all'improvviso sulla ribalta in uno degli
affollatissimi locali che a Napoli si giovarono della fortuna di
questo genere di spettacolo. Mettendo da parte la paura e la
preoccupazione per l'eventuale disapprovazione dell'amato, lei
affronta il pubblico e, seguendo il destino di tanti “dilettanti
allo sbaraglio”, che ebbero in tal modo l'occasione di cambiare la
loro vita, avvia una carriera ricca di successi e proiettata anche
sulla scena internazionale, proprio mentre la guerra infuria e le
porta via il suo Alfonso. Sfumata la speranza del ritorno dell'amato,
che non dimenticherà mai, Rosy prosegue la sua parabola artistica e
umana. Con l'ultima canzone, quel bel mondo rutilante svanisce
insieme a Rosy, che, tornata a essere la semplice Rosetta, si avvia
verso la rivelazione che ricollega le due vite in un epilogo amaro.
T vatt vuol dire “ti picchio”. Tre
attori in scena. Due immobili, lo sguardo fisso e feroce, e l'altro,
che sembra dominare il palco misurandolo con passo pesante, scandito
dal rumore degli zoccoli, mentre una voce registrata, dal tono
rilassato, quasi ipnotico, spiega ripetutamente a qualche
interlocutore i dettagli di una progettata spedizione punitiva con
pestaggio finale. Poi finalmente si ferma davanti al microfono: “'O
spettacolo è chisto: stamm mez'ora ie e vuje a sentere sta cosa!”.
La tiritera continua. Fatto alzare uno spettatore, lo fa salire sul
palco. “Stamm n'ora ie e chisto a sentere sta cosa!” A un altro
chiede di mimare una sfida e un pestaggio in playback e poi, a
entrambi, di mimare una rissa, doppiata e sonorizzata allo stesso
modo. L'effetto è esilarante. Fare a botte per strada non è da
tutti.
Anche l'ostentazione di atteggiamenti, un po' forzati, da
maschio dominante, finisce per risultare talmente grottesco da
strappare qualche risata, così come gli improbabili allenamenti
degli aspiranti picchiatori contro inermi ma tenaci angurie.
L'importante è entrare però nel meccanismo della violenza gratuita,
non osservarlo come semplici spettatori. Intimare qualcuno a caso a
andarsene oppure piazzarglisi davanti con aria minacciosa: anche
questi piccoli esempi di sopraffazione risultano funzionali
all'esposizione delle Teorie Violente Aprioristiche Temporali e
Territoriali (TVATT appunto) in una modalità che, per quanto
possibile, risulti più efficace in quanto corroborata
dall'esperienza diretta, quasi come se fosse un test. Monologhi
narranti, con vividezza di particolari, episodi crudi, spesso
ingiustificati: soppressioni di cuccioli, provocazioni, risse,
regolamenti di conti, violenza privata; rumori di percosse, urla,
combattimenti da strada mimati, favolette immorali; persino la
proiezione di una breve docufiction sul passato di un immaginario
gruppo di teppisti coi suoi rituali paradigmatici. Sono questi gli
elementi mediante i quali si sviscera la fenomenologia della
scazzottata, la filosofia della “capata in bocca”, l'estetica del
morso in faccia.
Prendendo le mosse da “East” e
“West” di Steven Berkoff, andati in scena tra gli anni settanta e
ottanta, Luigi Morra, ideatore e regista dello spettacolo (che potreste vedere qui), del quale
è anche interprete con Pasquale Passaretti e Eduardo Ricciardelli,
ne riprende i temi legati al contesto giovanile dei sobborghi
dell’East End Londinese, trasferendoli nella provincia campana, ma
riuscendo a ottenere un tale grado di astrazione e destrutturazione
degli accadimenti e delle esperienze che vengono rappresentati, da
renderli universali. D'altronde, in contesti lontani da quello
campano o meridionale, l'eventuale difficoltà di comprensione del
linguaggio risulterebbe comunque funzionale al senso di
prevaricazione che costituisce lo sfondo drammaturgico di questo
lavoro. Si tratta di un teatro che si muove lungo un confine, in
quanto si propone di indagare il lato oscuro delle relazioni umane
attraverso la codifica di un'aggressività in vario modo sperimentata
da tutti; non certo per celebrarla, ma piuttosto per consentire di
elaborarla e allontanarsene, come già in Berkoff, sottolineandone
certi aspetti grotteschi o sublimandone la dinamica mediante la
performance mimica. A Licia Amarante e Antonella Valitutti va il
merito di averlo presentato al pubblico salernitano, alcune sere fa,
nell'ambito della rassegna “Out of Bounds”, quarta edizione.
Un dramma corale della solitudine
prende vita in "Chiromantica ode telefonica agli abbandonati
amori", uno spettacolo di e con Roberto Solofria e Sergio Del
Prete, basato sulla felice fusione dei testi di quattro autori
contemporanei, attivi a Napoli soprattutto negli anni Ottanta del
Novecento, fautori di un linguaggio innovativo e dirompente rispetto
alla tradizione rappresentata da Viviani, De Filippo e altri. Nella
loro interpretazione così intensa, che il pubblico salernitano ha
avuto modo di apprezzare, lo scorso 15 febbraio, presso lo Spazio
Santa Apollonia, nell'ambito dell'attuale edizione della rassegna
teatrale Out of Bounds, curata da Licia Amarante e Antonella
Valitutti, i due attori danno vita a figure legate al mondo dei
travestiti, messi ai margini di una società pur sempre imperniata su
una contrapposizione rigorosamente dualistica dei sessi e costretti a
sopravvivere ricavandosi un ruolo motivato proprio da ciò che quel
dualismo contraddice e viene confinato nell'ombra, nella
clandestinità. Tutta l'azione si svolge dentro e intorno a una
gabbia che si fa metafora dell'emarginazione dei personaggi e
dell'impossibilità di uscire dalla loro condizione.
Prigionieri volontari di una casa o di un angolo di strada, da cui si allontanano
a malincuore, nella vana speranza che il miraggio di una vita
diversa, felice, si realizzi in quel luogo, anche solo attraverso una
telefonata attesa fino a farne il fulcro della propria quotidianità.
Su quel mondo tormentato, evocato dagli aspri versi di Enzo Moscato, scanditi a ogni intervallo come
una litania diabolica, potenziata dalle musiche originali Paky Di
Maio, si aprono finestre sulle vite di Marlene Dietrich, Rosalinda
Sprint, Jennifer, Gina, Tuna, Bolero e Grand Hotel, i personaggi
creati, insieme allo stesso Moscato, da Annibale Ruccello, Giuseppe
Patroni Griffi e Francesco Silvestri, sebbene, in quest'ultimo caso,
sia stato necessario un piccolo adattamento, in quanto nell'opera
originale, “Streghe da marciapiede”, si tratta di donne che,
esercitando la prostituzione, si ritrovano comunque immerse in un
contesto abbastanza simile a quello dei travestiti.
I personaggi sembrano prendere forma
passando da una sorta di stadio primordiale, animalesco: i due
attori, rannicchiati a torso nudo nella gabbia, si insaponano
compulsivamente la faccia e si radono, fino a rivelare dei volti che
ostentano un pesante, eccessivo trucco femminile. Come creature
favolose messe in mostra in un baraccone, i due sgusciano dalla
gabbia per inscenare scampoli di vite che li vedono ora fronteggiare
le difficoltà della loro condizione, come la diffidenza o l'ostilità
del vicinato o l'abbandono da parte di amanti vanamente minacciati di
essere smascherati, ora trasportati dal sogno della normalità, di
una vita di coppia stabile, incoraggiata dai consigli di figure
esperte, trasfigurate ironicamente in un'aura di santità, oppure
soltanto sognata, magari intravista attraverso improbabili pratiche
divinatorie in un fondo di bicchiere. In quest'ultimo caso incorrendo
in comici intoppi che alludono all'incapacità di evadere che azzoppa
perfino la fantasia e riconduce inesorabilmente
alla gabbia, nella posizione iniziale.
Sabato
8 e domenica 9 aprile il Coro Polifonico Casella di Salerno è stato
ospite del Festival “L'Inedit” a Rouen, dedicato alla musica
sacra contemporanea. Dopo essersi esibito sabato sera nella
Cattedrale con altre due formazioni, il danese Syddansk UniversitetsKammerkor e il Choeur de Chambre Maîtrise Saint-Evode, il coro della
cattedrale le cui origini risalgono al XIV secolo, ha curato con gli
stessi Cori riuniti la veste musicale della Messa Solenne delle
Palme, celebrata nella Cattedrale, e nel pomeriggio di domenica ha
avuto l'onore di concludere il Festival tenendo un applauditissimo
concerto nella splendida Salle des Etats, presso la Sede
arcivescovile.
La
manifestazione, che si è aperta venerdì sera nella Salle des Etats
con l'esibizione del Syddansk Universitets Kammerkor, diretto dal
Maestro Søren Flebo Jørgensen, è giunta alla nona edizione, e
quest'anno ha proposto un ideale viaggio musicale attraverso la
Scandinavia, focalizzando l'attenzione su alcuni autori norvegesi. Il
programma del concerto dei cori riuniti in Cattedrale, diretti dal
Maestro Loïe
Barrois, prevedeva infatti l'esecuzione di composizioni di Ola
Gjeilo, Knut Nystedt e Henning Sommerro, che ha preso parte alla
manifestazione quale ospite d'onore.
Di
Ola
Gjeilo (nato nel 1978) sono stati eseguiti “The Ground” e “UbiCaritas”, mentre Knut Nystedt (1915-2014) è stato ricordato
attraverso tre brani, “Peace I Leave With You”, “Immortal Bach”
e “I will praise Thee, O Lord”.
La
seconda parte del concerto, interamente dedicata a Henning Sommerro
(n. nel 1952) e introdotta da lui stesso, comprendeva “Laudamus
Te”, “Ioannes”(parte II) e l'”Ave Maria” tratta da “Three
Gregorian reflexions”. Con l'accompagnamento dell'organo sono stati
poi eseguiti: l'“Ingressus solemnis Regis Olavi”, scritto nel
2014 in occasione del millenario del battesimo di Sant'Olav, sovrano
della Norvegia e martire della Chiesa cattolica, che si tenne proprio
a Rouen come ricordato da una lapide e da una reliquia collocate
nella Cattedrale, “Grace mercy and peace”, uno spiritual
commissionato da una comunità statunitense, “Et Misericordia
eius”, una composizione caratterizzata da una coinvolgente vena
melodica, e infine un vivace “Alleluia”.
Sommerro,
noto soprattutto come autore di musiche per il teatro e per il
cinema, insegna al conservatorio di Tøndelag. Più volte insignito
di riconoscimenti accademici, ha sviluppato un linguaggio originale e
attraente, meritando in tal modo il consenso di un pubblico sempre
più ampio.
Con
l'esecuzione di tre “Ave Maria”, rispettivamente di G.
Aquilanti (nato nel 1959), R. Padoin (n. nel 1954) e dell'argentino
C.E. Matta, si è aperto il
concerto del Coro Polifonico Casella, diretto dal Maestro Caterina
Squillace. A seguire, l'eterea “Regina
coelorum”
di M.
Ferretti (n. nel 1974), “O magnum mysterium” di C.A. Carrillo e
“Alma redemptoris mater” di O. Dipiazza (n. nel 1929). Due brevi
composizioni di F. Moruja (n. nel 1960), “O bone Jesu” e “Lux
aeterna”, in rapida sequenza, hanno avvolto la sala gremita in
un'atmosfera molto suggestiva, dopodiché è stata la volta di “O
Jesu dolce” e “Già mi trovai di maggio” (sui versi del
Boiardo), entrambe di B. Bettinelli (1913-2004). Dopo un omaggio alla
Scandinavia affidato a “Across the bridge of hope” dello svedese
J. Sandstrom (n. nel 1954), un inno alla pace e alla fratellanza fra
i popoli, il tema della Passione di Cristo è stato evocato
attraverso “Vinea mea” di L.Donati (n. nel 1972), lo stesso
autore che ha musicato “L’ora di Barga” di Giovanni Pascoli, la
cui esecuzione si è valsa in questa occasione della partecipazione,
in qualità di solista, del tenore Fabrice Leonet, dell'EnsembleVocal Cepheus. Per finire, due composizioni dello spagnolo E. Solé,
venezuelano d'adozione: “Nocturno de la ventana” (testo di
Federico Garcia Lorca) e una ninna nanna, “Canción azul de cuna”.
La
standing ovation di un pubblico numeroso e entusiasta e la reiterata
richiesta di bis hanno attestato il notevole apprezzamento
dell'esibizione della formazione salernitana.
[Pubblicato su Le Cronache, 10 dicembre 2015, p. 31.]
Il Coro Polifonico Casella al Teatro Novelli
di Rimini dopo la premiazione
(foto di Carlo Muzzillo).
Dopo
la partecipazione al Concorso corale internazionale Città di Rimini,
in occasione del quale si è classificato al terzo posto nella categoria "Cori misti", il Coro Polifonico Casella di
Salerno torna a esibirsi sabato
alle 20.00
nella propria città, presso la chiesa della Madonna del Carmine.
L'organico diretto dal M. Caterina Squillace annovera, tra i soprani,
Giovanna Annunziato, Concetta Blandino, Maria Brucale, Patrizia De
Mascellis, Mena Iacobelli, Daniela Natella, e tra i contralti Luisa
De Ferrante, Daniela Delvecchio, Anna Maria Gammaldi, Rossana
Graziano, Anna Maria Muzzillo, Anna Pellegrino. Tra le voci maschili
i tenori Michele Buonocore, Vincenzo Caroniti, Vincenzo Nicastro e i
bassi Antonello Amato, Damiano Durante, Aristide Fiore, Riccardo
Gammaldi, Piero Sacco, Eugenio Vicinanza.
La
parte iniziale del concerto è dedicata alla musica sacra. Si
comincia con due composizioni contemporanee. All'Ave
Maria di Giancarlo Aquilanti (2000), un canto a cappella dalla
tessitura armonica vivida e ricca
apre la strada alla suggestiva atmosfera dell'Ave Maria, in latino,
di Roberto Padoin. Segue il Salve Regina di Antonio Lotti, un autore
del XVII secolo, la cui opera è considerata come parte della
transizione fra la musica barocca e quella classica.
Con
Le chant des oyseaux di Clément Janequin (ca 1485-1558), in cui le voci
riproducono i versi degli uccelli in un bosco mediante un complesso
intreccio di suoni onomatopeici, si passa alla polifonia
rinascimentale, dopodiché si ritorna
al repertorio contemporaneo, ma gradualmente, attraverso l'incontro
delle sonorità di
Claude Debussy (1862-1918) con
la poesia tardo medievale in Dieu!
Qu'il la fait bon regarder, adattamento corale di una delle Tre canzoni di Carlo
di Valois, duca d'Orleans (1394-1465), nella quale si loda la
bellezza di una donna. Il rovescio della medaglia, ovvero la vanità
delle seduzioni del mondo, è invece il tema di Daemon irrepit callidus (1997) del rumeno Giyorgy Orban, un canto goliardico a
cappella dal ritmo incalzante. La contemplazione della natura e il
sollievo che ne deriva è il tema de L'Ora di Barga (1999) di Lorenzo
Donati, che ha musicato l'omonima poesia compresa nei Canti di
Castelvecchio di Giovanni Pascoli.
La
seconda parte del programma prevede un'immersione nel clima
natalizio, introdotta da Regina
coelorum di Marco Ferretti, un'eterea composizione contemporanea che
privilegia i timbri più chiari.
Seguono
due canti che celebrano il mistero dell'incarnazione del Verbo e
rievocano la nascita di Gesù: Pastores dicite, un mottetto natalizio
dello spagnolo Cristóbal
de Morales (ca 1500-1553), rappresentativo della polifonia sacra
spagnola del Cinquecento, strettamente legata a quella romana della
stessa epoca, e O magnum mysterium (2000) di César Alejandro
Carrillo. Il messaggio evangelico è rappresentato dal mottetto If
Ye love me di Thomas Tallis (ca 1505-1585), basato sul testo di
Giovanni, capitolo 14, versetti 15-17: "Se
mi amate, osserverete i miei comandamenti. E io pregherò il Padre, e
Lui vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per
sempre, lo Spirito di verità...".
Infine,
tre canti tradizionali del mondo anglosassone: God rest You merry,
Gentlmen, nella versione corale di David Willcocks, Ding Dong!
Merrily on high - testo di George Ratcliffe Woodward (1848-1934) e
musica di Charles Wood (1866-1926) -, e Ring Christmas bells di
Mykola Leontovich (1877-1921).
[Pubblicato
su Le Cronache del salernitano, 27 giugno 2014, p. 8.]
Prima
di intraprendere una tournée in Normandia per partecipare al
festival internazionale "Voix et Chemins", il Coro polifonico Casella, diretto dal Maestro Caterina Squillace, saluterà
la città esibendosi alle 20:00 di domani sera nella Chiesa di Santa
Lucia de Giudaica.
L'ensemble
salernitano, il cui repertorio comprende la musica
polifonica a cappella dal '500 ai compositori contemporanei,
è nato
nel 1984 e ha intrapreso fin dall'inizio una intensa attività
artistica, che annovera la partecipazione a concorsi nazionali e
internazionali quali la XIX edizione del Concorso Internazionale di
Canto Corale “Praga Cantat” (Praga, 2005), in occasione della
quale ha ottenuto la Medaglia d’oro. Il suo impegno nella
divulgazione e diffusione della musica si esplicita nella promozione
di stages e importanti eventi, come la collaborazione con la “Nuova
Orchestra Scarlatti” di Napoli per la manifestazione “TuttinCoro”,
tenutasi nel 2006 presso l’Auditorium della RAI di Napoli.Dal
1994 organizza, con cadenza biennale, la Rassegna
Internazionale di Cori Polifonici "Cantare Amantis Est",
che è caratterizzata dalla ricca varietà di generi musicali, dalla
musica polifonica antica a quella di più recente composizione, dal
jazz al folk, dal gregoriano al gospel, dalla musica barocca al pop e
deve il suo successo, oltre all'attenta selezione dei partecipanti,
anche all'ambientazione in luoghi
solitamente non accessibili, offrendo un'occasione per riscoprire
alcuni tesori storico-artistici della nostra città. Il
direttore del coro, Caterina Squillace,
è stata premiata come “Miglior Direttore” al IV Concorso Corale
Nazionale “Città di Porto Empedocle” e ha ottenuto una menzione
speciale della giuria per la “migliore direzione del brano
d’obbligo” al XIX Concorso Internazionale “Praga Cantat”
tenutosi a Praga (Repubblica Ceca). Dirige il Coro Polifonico
“Casella” di Salerno dal 1990.
La
prima parte del concerto sarà dedicata al repertorio sacro e
inizierà con un mottetto in latino di un autore anonimo del XIII
secolo, “Alle psallite cum luya”, inserito nel “Codice di
Montpellier” e di presumibili origini francesi. Si passerà poi a
due brani di Antonio Lotti, autore del XVII secolo, la cui opera è
considerata come parte della transizione fra la musica barocca della
sua epoca e quella classica, che iniziava ad emergere: “Regina
Coeli” e “Salve Regina”. Successivamente saranno eseguiti brani
di musica contemporanea: “Regina Coelorum” di Marco Ferretti,
“Ave Maria” di Roberto Padoin, “O Bone Jesu” e “Lux
aeterna” di Fernando Moruja, autore argentino prematuramente
scomparso, e infine “Alma Redemptoris Mater” di Orlando Dipiazza.
La
seconda parte del concerto sarà introdotta dal più antico
controcanto conosciuto, “Sumer is icumen in”, composto nel XIII
secolo, in Inghilterra, da autore anonimo. Il gioioso saluto
all’inizio della bella stagione continuerà con la prima delle due
chansons di Clément Janequin comprese nel programma: “Le Chant des
oyseaux”, in cui le voci riprodurranno il canto ed i versi degli
uccelli in un bosco. Seguirà il madrigale “Io v’amo vita mia”
di Vittoria Aleotti, clavicembalista e monaca: una delle poche donne
che nel Rinascimento si avvicinarono alla composizione musicale.
Successivamente sarà la volta della seconda chanson di Janequin, “La
Guerre”, composta nel 1515 per celebrare la vittoria della Francia
sulla Svizzera nella battaglia di Marignano; in essa l’uso delle
onomatopee riproduce efficacemente il clangore delle armi, il fragore
delle bombarde e dei cannoni. L’atmosfera cambierà completamente
con “Frammenti Amorosi”, una composizione per coro a tre voci
femminili, liberamente tratta dai “Fragments d’un discours
amoureaux” di Roland Barthes, nella quale si sublimano i sentimenti
dell’"Assenza” e dell’"Attesa” dell’amato e si
ama l’Amore più dell’amato; testo di Giuseppe Calliari e musica
di Sandro Filippi. Sarà poi eseguito “Clic clac, dansez sabots”
per coro a voci virili di Francis Jean Marcel Poulenc,
brano
scherzoso e umoristico che evoca una scena di vita quotidiana della
Francia degli inizi del XX secolo. Il concerto si concluderà con
“Vecchie letrose” di Adrian Willaert, autore fiammingo fra i più
versatili compositori del Rinascimento, in cui viene rappresentato un
litigio fra popolane della Napoli del tempo, le cui grida rimandano
al latrato di un cane.