giovedì 1 marzo 2018

La litania diabolica di Chiromantica

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Un dramma corale della solitudine prende vita in "Chiromantica ode telefonica agli abbandonati amori", uno spettacolo di e con Roberto Solofria e Sergio Del Prete, basato sulla felice fusione dei testi di quattro autori contemporanei, attivi a Napoli soprattutto negli anni Ottanta del Novecento, fautori di un linguaggio innovativo e dirompente rispetto alla tradizione rappresentata da Viviani, De Filippo e altri. Nella loro interpretazione così intensa, che il pubblico salernitano ha avuto modo di apprezzare, lo scorso 15 febbraio, presso lo Spazio Santa Apollonia, nell'ambito dell'attuale edizione della rassegna teatrale Out of Bounds, curata da Licia Amarante e Antonella Valitutti, i due attori danno vita a figure legate al mondo dei travestiti, messi ai margini di una società pur sempre imperniata su una contrapposizione rigorosamente dualistica dei sessi e costretti a sopravvivere ricavandosi un ruolo motivato proprio da ciò che quel dualismo contraddice e viene confinato nell'ombra, nella clandestinità. Tutta l'azione si svolge dentro e intorno a una gabbia che si fa metafora dell'emarginazione dei personaggi e dell'impossibilità di uscire dalla loro condizione.


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Prigionieri volontari di una casa o di un angolo di strada, da cui si allontanano a malincuore, nella vana speranza che il miraggio di una vita diversa, felice, si realizzi in quel luogo, anche solo attraverso una telefonata attesa fino a farne il fulcro della propria quotidianità. Su quel mondo tormentato, evocato dagli aspri versi di Enzo Moscato, scanditi a ogni intervallo come una litania diabolica, potenziata dalle musiche originali Paky Di Maio, si aprono finestre sulle vite di Marlene Dietrich, Rosalinda Sprint, Jennifer, Gina, Tuna, Bolero e Grand Hotel, i personaggi creati, insieme allo stesso Moscato, da Annibale Ruccello, Giuseppe Patroni Griffi e Francesco Silvestri, sebbene, in quest'ultimo caso, sia stato necessario un piccolo adattamento, in quanto nell'opera originale, “Streghe da marciapiede”, si tratta di donne che, esercitando la prostituzione, si ritrovano comunque immerse in un contesto abbastanza simile a quello dei travestiti.

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I personaggi sembrano prendere forma passando da una sorta di stadio primordiale, animalesco: i due attori, rannicchiati a torso nudo nella gabbia, si insaponano compulsivamente la faccia e si radono, fino a rivelare dei volti che ostentano un pesante, eccessivo trucco femminile. Come creature favolose messe in mostra in un baraccone, i due sgusciano dalla gabbia per inscenare scampoli di vite che li vedono ora fronteggiare le difficoltà della loro condizione, come la diffidenza o l'ostilità del vicinato o l'abbandono da parte di amanti vanamente minacciati di essere smascherati, ora trasportati dal sogno della normalità, di una vita di coppia stabile, incoraggiata dai consigli di figure esperte, trasfigurate ironicamente in un'aura di santità, oppure soltanto sognata, magari intravista attraverso improbabili pratiche divinatorie in un fondo di bicchiere. In quest'ultimo caso incorrendo in comici intoppi che alludono all'incapacità di evadere che azzoppa perfino la fantasia e riconduce inesorabilmente alla gabbia, nella posizione iniziale.

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