T vatt vuol dire “ti picchio”. Tre
attori in scena. Due immobili, lo sguardo fisso e feroce, e l'altro,
che sembra dominare il palco misurandolo con passo pesante, scandito
dal rumore degli zoccoli, mentre una voce registrata, dal tono
rilassato, quasi ipnotico, spiega ripetutamente a qualche
interlocutore i dettagli di una progettata spedizione punitiva con
pestaggio finale. Poi finalmente si ferma davanti al microfono: “'O
spettacolo è chisto: stamm mez'ora ie e vuje a sentere sta cosa!”.
La tiritera continua. Fatto alzare uno spettatore, lo fa salire sul
palco. “Stamm n'ora ie e chisto a sentere sta cosa!” A un altro
chiede di mimare una sfida e un pestaggio in playback e poi, a
entrambi, di mimare una rissa, doppiata e sonorizzata allo stesso
modo. L'effetto è esilarante. Fare a botte per strada non è da
tutti.
Anche l'ostentazione di atteggiamenti, un po' forzati, da
maschio dominante, finisce per risultare talmente grottesco da
strappare qualche risata, così come gli improbabili allenamenti
degli aspiranti picchiatori contro inermi ma tenaci angurie.
L'importante è entrare però nel meccanismo della violenza gratuita,
non osservarlo come semplici spettatori. Intimare qualcuno a caso a
andarsene oppure piazzarglisi davanti con aria minacciosa: anche
questi piccoli esempi di sopraffazione risultano funzionali
all'esposizione delle Teorie Violente Aprioristiche Temporali e
Territoriali (TVATT appunto) in una modalità che, per quanto
possibile, risulti più efficace in quanto corroborata
dall'esperienza diretta, quasi come se fosse un test. Monologhi
narranti, con vividezza di particolari, episodi crudi, spesso
ingiustificati: soppressioni di cuccioli, provocazioni, risse,
regolamenti di conti, violenza privata; rumori di percosse, urla,
combattimenti da strada mimati, favolette immorali; persino la
proiezione di una breve docufiction sul passato di un immaginario
gruppo di teppisti coi suoi rituali paradigmatici. Sono questi gli
elementi mediante i quali si sviscera la fenomenologia della
scazzottata, la filosofia della “capata in bocca”, l'estetica del
morso in faccia.
Prendendo le mosse da “East” e
“West” di Steven Berkoff, andati in scena tra gli anni settanta e
ottanta, Luigi Morra, ideatore e regista dello spettacolo (che potreste vedere qui), del quale
è anche interprete con Pasquale Passaretti e Eduardo Ricciardelli,
ne riprende i temi legati al contesto giovanile dei sobborghi
dell’East End Londinese, trasferendoli nella provincia campana, ma
riuscendo a ottenere un tale grado di astrazione e destrutturazione
degli accadimenti e delle esperienze che vengono rappresentati, da
renderli universali. D'altronde, in contesti lontani da quello
campano o meridionale, l'eventuale difficoltà di comprensione del
linguaggio risulterebbe comunque funzionale al senso di
prevaricazione che costituisce lo sfondo drammaturgico di questo
lavoro. Si tratta di un teatro che si muove lungo un confine, in
quanto si propone di indagare il lato oscuro delle relazioni umane
attraverso la codifica di un'aggressività in vario modo sperimentata
da tutti; non certo per celebrarla, ma piuttosto per consentire di
elaborarla e allontanarsene, come già in Berkoff, sottolineandone
certi aspetti grotteschi o sublimandone la dinamica mediante la
performance mimica. A Licia Amarante e Antonella Valitutti va il
merito di averlo presentato al pubblico salernitano, alcune sere fa,
nell'ambito della rassegna “Out of Bounds”, quarta edizione.
Nessun commento:
Posta un commento