Di
Aristide Fiore
[Pubblicato su Le
Cronache del salernitano, 10 marzo 2014, p. 12]
Al settimo appuntamento
della rassegna La versione di Marte. Libri, incontri d'autore,
narrazioni, coordinata e curata
da Davide Speranza da un concept di Alfonso Amendola, venerdì scorso
è stata la volta del volume Il giorno che diventammo umani, di Paolo Zardi (Neo Edizioni). Sono intervenuti con
l'autore, presso la Mediateca MARTE di Cava de' Tirreni, Maria Olmina
D'Arienzo (dirigente del Liceo Scientifico “A. Genoino” di Cava
de' Tirreni), Gemma Criscuoli (pubblicista), Pietro Balzano (lettore
MARTE) e l'attore Niccolò Farina, che ha letto alcuni racconti.
Per Pietro Balzano,
leggere questi racconti è stato davvero come ricevere un pugno nello
stomaco, già a partire dal primo, “Domenica pomeriggio” con il
quale Zardi manifesta fin dall'inizio la crudezza di linguaggio e
immagini che ricorre nel volume, lasciando il lettore senza fiato e
catturandolo con una narrazione coinvolgente. Un libro insolito e
dirompente, dunque, che in definitiva, nonostante l'atmosfera cupa
che lo pervade, si potrebbe considerare un libro d'amore. Il
carattere non comune dell'opera è uno dei suoi punti di forza anche
secondo la professoressa D'Arienzo, che ne ha lodato la perfezione
linguistica e lo stile diretto, privo di orpelli, ma al tempo stesso
curatissimo. Si nota particolarmente l'accuratezza degli accorgimenti
formali: sintesi, essenzialità, realismo, mimesi linguistica: Zardi
si mette davvero nei panni dei protagonisti, per condurre il lettore
attraverso una discesa negli inferi che a ben vedere è la premessa
di una risalita. Alcune storie terminano con un elemento inatteso: è
lo stesso schema delle barzellette, qui adottato per conferire loro
un carattere problematico, come è giusto che sia, quando si trattano
temi fondamentali, come sesso, amore, morte. Sono temi universali,
che in quest'opera
Paolo Zardi, Maria Olmina D'Arienzo e Pietro Balzano (foto: A. Fiore). |
vengono affrontati per spiegare che cosa
significhi essere uomini. Il dolore, che pervade tutte le vicende
narrate, è in realtà una forma di difesa, qualcosa di positivo, che
insegna e induce a migliorarsi. La funzione di queste storie si basa
sul rapporto tra pathos e mathos, dolore e
insegnamento. Qual è “il giorno
che diventammo umani”? Forse quello in cui scoprimmo il
senso della comunità, il legame coi nostri simili. È quando ci
accorgiamo dell'esistenza degli altri e dei limiti comuni, che
diventiamo umani. La parola “uomo” viene da humus (terra),
che è anche l'etimo di “umiltà”. Leggendo questi racconti si
avverte una tensione continua, che però conduce all'accettazione
della propria condizione. Sono storie particolari, che ci fanno
sentire parte di una comunità più grande. Ed è proprio
ritrovandoci, riconoscendoci come simili, che possiamo salvarci. La
buona letteratura ha infatti anche un valore soteriologico, e questo
libro lo possiede. Si tratterebbe dunque di una specie di breviario
laico, da leggere e meditare quotidianamente per gestire le proprie
pulsioni intime, le proprie insicurezze. Una sorta di esame di
coscienza impegna gli stessi protagonisti dei venti racconti, i
quali, secondo l'interpretazione di Gemma Criscuoli, declinano il
concetto di redde rationem:
tutti i protagonisti si ritrovano infatti a dover fare i conti con
ricordi, rimpianti, persistenze emotive. È un passaggio doloroso ma
necessario, affinché anche una vita contraddittoria recuperi il suo
peso. Zardi ha indagato l'aspetto straniante dell'ordinario, che in
queste pagine non riesce a bastare a se stesso in quanto risente di
una dissonanza sia pure confinata sullo sfondo, di un vuoto che si
tenta di colmare abbandonandosi alle proprie pulsioni. Non dissimile
appare la conclusione del dibattito, affidata allo stesso
autore: «Ho cercato di
rappresentare la tensione tra la spinta vitale, da un lato, e la
presenza costante della morte e del dolore, dall'altro. In genere,
nell'arco della vita non si trovano soluzioni, ma ciò non ne
compromette il valore: nel bene e nel male, è pur sempre l'unica
ricchezza che abbiamo.
Nella scena finale del film The Elephant
Man di David Lynch, il protagonista lancia il suo grido di dolore
: «Sono un essere umano!».
Questo grido di dolore è anche il filo conduttore dell'opera: è il
grido disperato di chi si sente inadeguato alle proprie aspettative o
a quelle altrui, e ciononostante rivendica la propria umanità,
l'unico bene che si possiede veramente. L'uomo diventa tale nel
momento in cui diviene cosciente dell'esistenza e della dicotomia tra
bene e male. Quando i progenitori vengono cacciati dal paradiso
terrestre (è il tema de “Il giardino dell'Eden”), nasce questa
consapevolezza, ma nasce anche l'amore, come unica risposta alla
morte.» Si lascia quindi intravedere una via d'uscita, una reazione
al male di esistere fondata sulla capacità di attribuire valore alle
cose, perfino a momenti apparentemente insignificanti, che può
essere esemplificata dall'esito dell'ultimo racconto, un flusso di
coscienza ininterrotto, che culmina nella frase finale: «Rido,
perché se la vita fa schifo, stasera ha fatto un'eccezione».
Gemma Criscuoli e Paolo Zardi (foto: A. Fiore). |
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