di Aristide Fiore
[Pubblicato su Le
Cronache del salernitano, 1 maggio 2014, p. 11.]
La Napoli dell'estate
1943, martellata dai bombaramenti alleati e poi insorta, nelle famose
Quattro giornate, per cacciare gli occupanti tedeschi, rivive in
“Morso di Luna Nuova” di Erri De Luca, lo spettacolo teatrale a
cura del LaB-laboratorio Teatro degli Attori, con Ciro Girardi,
Tonino di Falco, Rosaria Vitolo, Adriana Fiorillo, Gigi Vernieri,
Aldo Arrigo, Salvatore Paolella, Claudio Collano, Biancarosa Di
Ruocco e la regia di Franco Alfano, andato in scena lunedì nel
complesso di Santa Sofia, nell'ambito della manifestazione
“Resistenze”: un programma di eventi culturali dedicato ai temi
concernenti il venticinque aprile e il primo maggio, con il quale si
intende delineare un ideale collegamento tra le due festività
civili, incentrato sul rapporto tra arte e impegno sociale.
Un gruppo di persone si
incontra ripetutamente in un rifugio antiaereo, sotto i bombardamenti
alleati, accomunati forse solo dalla paura che cercano di scacciare
come possono: pregando, declamando vani proclami roboanti ai quali a
poco a poco si finisce col non credere più, immaginando di ottenere
futili vantaggi dalla situazione anomala o abbandonandosi a fantasie
innocenti.
L'evoluzione del
conflitto, l'orrore per le morti e le distruzioni, le speranze
illusorie: tutta la storia di quei giorni terribili attraversa quel
piccolo spazio. Una scena completamente spoglia, un fondo nero
uniforme rende quasi palpabile il buio che avvolge uomini e donne
costretti a vivere come topi. A ogni cambio di scena si popola di
immagini e suoni scelti da Elena Scardino, che amplificano il senso
immane della tragedia rievocato dai racconti dei personaggi. Alla
fine anche Roma viene bombardata e il fascismo cade. Sembrerebbero
buone notizie: la guerra potrebbe terminare. Quel primo, illusorio
entusiamo lascia però subito il posto allo sgomento: si tratta solo
di «altri morti nostri».
Gli americani, nel frattempo, sono sbarcati a Salerno e stanno
avanzando verso nord, ma indugiano a attaccare Napoli, sperando in
un'imminente ritirata dei tedeschi da una città indifendibile, ormai
stremata e in preda ai rastrellamenti. L'angosciosa attesa degli otto
occupanti del rifugio, ai quali in seguito si aggiungerà un insorto,
pronto come loro all'azione, si risolve nella decisione di
ribellarsi. Con lo spuntare della luna nuova di settembre torna una
flebile luce, che è già un segno di speranza. Cadono le maschere,
le ipocrisie, le false sicurezze; si rivelano tuttavia anche virtù
inaspettate e nuove prospettive: esiste un'organizazione che recluta
chiunque possa imbracciare un'arma, ma ben presto si unirà a loro un
intero popolo, armato di tutto ciò che gli capita a tiro, di quegli
oggetti quotidiani resi quanto mai preziosi dalle confische e dalle
privazioni della guerra, improvvisamente trasformati in munizioni
improprie ma in qualche modo efficaci. Ancora una volta, a
complemento dell'azione scenica, scorrono sullo sfondo delle
immagini, stavolta tratte dal film Le Quattro giornate di Napoli (1962), diretto da Nanni Loy: i combattimenti nelle strade, la
liberazione dei prigionieri nello stadio del Vomero (girata al
Vestuti di Salerno, con comparse locali), l'attacco ai carri armati
con le moltov e la morte eroica del piccolo Gennarino Capuozzo
(medaglia d'oro al valor militare). Certo, riproporre la coralità
del film, pur muovendosi palesemente su quel solco, sarebbe stato
impossibile, e forse persino inutile. Un valido spunto per la
riuscita di questa rappresentazione è stato il voler trasmettere il
senso del dramma collettivo, intensificandolo attraverso le storie
dei personaggi, la loro umanità.
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