Potremmo decidere, per una volta, di stare al gioco e lasciare che uno strano personaggio ci accompagni in un curioso viaggio notturno, dalla tangenziale est di Roma allo spazio intergalattico, in cerca di Dio, e caso mai incontrare un alieno, qualcuno che magari possa finalmente fornire delle risposte adatte a dare un senso al quel convulso andirivieni tra un posto e l'altro, da una meta a quella successiva, che chiamiamo “vita”. Potremmo farlo davvero in qualche modo, se ci capitasse di assistere a "Luna park. Do you want a cracker?", uno spettacolo scritto, diretto e interpretato da Simone Perinelli, presentato lo scorso 1 marzo a Salerno dalla compagnia Leviedelfool di Viterbo al S. Apollonia Space di Salerno, nell'ambito della rassegna teatrale Out of bounds curata da Licia Amarante e Antonella Valitutti. Una specie di idiot savant, capace di ricordare una grande quantità di nozioni delle quali tuttavia non sembra poter comprendere a pieno il significato, si lascia trasportare e trascina con sé gli ascoltatori in un flusso di parole intercalato da tic verbali e motori. Ogni inceppamento del suo discorso sgangherato e ridondante può comportare un salto in un altro mondo, ogni parola può essere una chiave per entrarvi e passare per esempio dall'uscita per Viale Etiopia all'Etiopia, una delle terre sulle quali si è fantasticato per molti secoli e che, nell'immaginazione del nostro personaggio, sarebbe il posto dal quale si può osservare la maggiore quantità possibile di stelle, ma, grazie a un immaginario cannocchiale potentissimo, anche il futuro e persino Dio. Ma come fare, se l'Etiopia resta un posto lontano e in città si vedono più stelle stampate sui biscotti che in cielo e l'orizzonte coincide con i viadotti della tangenziale? Basta deviare il solito percorso e un rettilineo apparentemente interminabile diventa una corsia preferenziale per proiettarsi nel cosmo e passarlo al setaccio. Sembra che tutti siano alla ricerca di Dio con ogni mezzo: tutti cercano un segno che ne confermi l'esistenza e persino l'autovelox risponde allo scopo segreto di fotografarlo mentre passa sulla tangenziale. Ciononostante Dio non si trova. C'è solo un uomo accanto a dei mulini a vento, sulla faccia nascosta della Luna, un posto dove il vento manca. Dov'è la follia, in colui che in quei mulini vede dei giganti da combattere o piuttosto nella loro assurda collocazione? Di sicuro il senno perduto non è finito lassù: c'è finita la follia stessa, emarginata da una società schizofrenica, che cerca il divino o attende almeno un messaggio di speranza da un altrove indefinito e intanto si perde in una corsa sfrenata verso un progresso infinito, mentre intere civiltà nascono e muoiono, nuove invenzioni ne soppiantano altre e tutto sembra muoversi secondo un ossessivo "su e giù", come sulle montagne russe, come le auto che sfrecciano sulla tangenziale.
https://www.leviedelfool.com/
In assenza di Dio, inesistente o latitante, ci si sente autorizzati a "creare le cose": l'umanità si è lanciata nel vortice delle invenzioni, imitata dal nostro personaggio, che realizza o semplicemente evoca il suo piccolo mondo coi gesti, proprio come farebbe un bambino o un attore. Ecco quindi apparire la Lola: un cane a cui vengono attribuite credenze e aspirazioni, un improbabile Sancho Panza, che a volte però sembra quasi più visionario del suo stralunato padrone. Un Don Chisciotte metropolitano, che si imbatte continuamente in avventure e sfide ingigantite dalla sua imperfetta comprensione della realtà, e ,come il suo omologo letterario, vive episodi paradossali o situazioni ridicole, fino all'agognato incontro con un alieno. È il momento delle domande che non avevano mai trovato risposta, anche se, per rompere il ghiaccio, non si trova di meglio che offrire uno snack in uno stentato inglese. Che ne è stato di Dio? È forse scappato per lo spavento, dopo il big bang, e se ne sta a guardare il mondo da lontano, a osservare coloro che agiscono, come qualcuno che se ne stia affacciato sulla tangenziale? Coloro che agiscono, dal canto loro, non sono forse tutti in preda a qualche mania, che induce ognuno a lanciarsi contro i propri mulini a vento? E infine chi è, veramente, questo alieno? Forse è semplicemente qualcuno con cui poter parlare: l'altro, lo sconosciuto, lo spettatore.
L'epoca
d'oro della canzone napoletana e la tradizione dei café chantant
rivivono in “Rosy D’Altavilla. L’amore oltre il tempo”, uno
spettacolo scritto e diretto da Paolo Vanacore, interpretato
magistralmente da una poliedrica Carmen di Marzo, che, grazie alla
rassegna Out of Bounds, curata da Licia Amarante e Antonella
Valitutti, giunta alla quarta edizione, è stato riproposto con
successo al pubblico salernitano.
Al
centro della vicenda rappresentata c'è Rosetta, impiegata come
bidella in una scuola di Napoli; una donna sola di umile condizione,
che custodisce gelosamente il ricordo dettagliato di una vita
precedente: uno strano segreto che, se rivelato, potrebbe procurarle
un grande imbarazzo o addirittura dei guai. L'amore tuttavia apre
tutte le porte. A Rosetta basta notare un alunno che cerca
continuamente di allontanarsi dall'aula per incontrare una ragazzina
che diserta le lezioni con pretesti analoghi, per aprire l'armadio
dei ricordi della sua vita anteriore e confidarsi col ragazzo. Nessun
altro è in scena. Farci immaginare, quasi avvertire la presenza
dello studentello è un compito interamente affidato alla bravura e
alla naturalezza dell'attrice. L'accenno al proposito di fare la
serenata alla ragazzina rivela le doti canore della bidella, che
ormai non può più trattenersi dal cantare e confessare il suo
segreto, quasi per giustificare il talento riposto in una persona
comune, anonima, da lei ritenuto evidentemente ancor più
improbabile.
Una
ricerca condotta da Alessandro Panatteri, autore e esecutore delle
musiche originali, ha
permesso il recupero di canzoni di un secolo fa, le quali, pur avendo
riscosso grande successo all'epoca e pur possedendo la stessa qualità
di altre composizioni tuttora note e continuamente eseguite con
invariato riscontro, sono scomparse innanzitutto dalla memoria
collettiva, sopravvivendo soltanto attraverso qualche vecchio
spartito ingiallito. A partire da queste composizioni, tredici per
l'esattezza, cantate ottimamente dal vivo dalla stessa Carmen
di Marzo, accompagnata al pianoforte da Panatteri e al flauto da
Fabio Angelo Colajanni, si dipana la storia di Rosy D'Altavilla, la
chanteuse che visse due volte. Smessi i panni di Rosetta, sostituiti
rapidamente a scena aperta da quelli di una diva della canzone sul
finire della belle époque, è la stessa protagonista, che si
racconta. Una giovinetta di più di cent'anni fa, anche lei di umili
origini, rivela le sue doti canore grazie all'abitudine di cantare
spontaneamente, spinta dalla gioia di vivere e, più tardi, anche
dall'amore per Alfonso. Notata da una coppia di impresari del café
chantant, si ritrova all'improvviso sulla ribalta in uno degli
affollatissimi locali che a Napoli si giovarono della fortuna di
questo genere di spettacolo. Mettendo da parte la paura e la
preoccupazione per l'eventuale disapprovazione dell'amato, lei
affronta il pubblico e, seguendo il destino di tanti “dilettanti
allo sbaraglio”, che ebbero in tal modo l'occasione di cambiare la
loro vita, avvia una carriera ricca di successi e proiettata anche
sulla scena internazionale, proprio mentre la guerra infuria e le
porta via il suo Alfonso. Sfumata la speranza del ritorno dell'amato,
che non dimenticherà mai, Rosy prosegue la sua parabola artistica e
umana. Con l'ultima canzone, quel bel mondo rutilante svanisce
insieme a Rosy, che, tornata a essere la semplice Rosetta, si avvia
verso la rivelazione che ricollega le due vite in un epilogo amaro.
T vatt vuol dire “ti picchio”. Tre
attori in scena. Due immobili, lo sguardo fisso e feroce, e l'altro,
che sembra dominare il palco misurandolo con passo pesante, scandito
dal rumore degli zoccoli, mentre una voce registrata, dal tono
rilassato, quasi ipnotico, spiega ripetutamente a qualche
interlocutore i dettagli di una progettata spedizione punitiva con
pestaggio finale. Poi finalmente si ferma davanti al microfono: “'O
spettacolo è chisto: stamm mez'ora ie e vuje a sentere sta cosa!”.
La tiritera continua. Fatto alzare uno spettatore, lo fa salire sul
palco. “Stamm n'ora ie e chisto a sentere sta cosa!” A un altro
chiede di mimare una sfida e un pestaggio in playback e poi, a
entrambi, di mimare una rissa, doppiata e sonorizzata allo stesso
modo. L'effetto è esilarante. Fare a botte per strada non è da
tutti.
Anche l'ostentazione di atteggiamenti, un po' forzati, da
maschio dominante, finisce per risultare talmente grottesco da
strappare qualche risata, così come gli improbabili allenamenti
degli aspiranti picchiatori contro inermi ma tenaci angurie.
L'importante è entrare però nel meccanismo della violenza gratuita,
non osservarlo come semplici spettatori. Intimare qualcuno a caso a
andarsene oppure piazzarglisi davanti con aria minacciosa: anche
questi piccoli esempi di sopraffazione risultano funzionali
all'esposizione delle Teorie Violente Aprioristiche Temporali e
Territoriali (TVATT appunto) in una modalità che, per quanto
possibile, risulti più efficace in quanto corroborata
dall'esperienza diretta, quasi come se fosse un test. Monologhi
narranti, con vividezza di particolari, episodi crudi, spesso
ingiustificati: soppressioni di cuccioli, provocazioni, risse,
regolamenti di conti, violenza privata; rumori di percosse, urla,
combattimenti da strada mimati, favolette immorali; persino la
proiezione di una breve docufiction sul passato di un immaginario
gruppo di teppisti coi suoi rituali paradigmatici. Sono questi gli
elementi mediante i quali si sviscera la fenomenologia della
scazzottata, la filosofia della “capata in bocca”, l'estetica del
morso in faccia.
Prendendo le mosse da “East” e
“West” di Steven Berkoff, andati in scena tra gli anni settanta e
ottanta, Luigi Morra, ideatore e regista dello spettacolo (che potreste vedere qui), del quale
è anche interprete con Pasquale Passaretti e Eduardo Ricciardelli,
ne riprende i temi legati al contesto giovanile dei sobborghi
dell’East End Londinese, trasferendoli nella provincia campana, ma
riuscendo a ottenere un tale grado di astrazione e destrutturazione
degli accadimenti e delle esperienze che vengono rappresentati, da
renderli universali. D'altronde, in contesti lontani da quello
campano o meridionale, l'eventuale difficoltà di comprensione del
linguaggio risulterebbe comunque funzionale al senso di
prevaricazione che costituisce lo sfondo drammaturgico di questo
lavoro. Si tratta di un teatro che si muove lungo un confine, in
quanto si propone di indagare il lato oscuro delle relazioni umane
attraverso la codifica di un'aggressività in vario modo sperimentata
da tutti; non certo per celebrarla, ma piuttosto per consentire di
elaborarla e allontanarsene, come già in Berkoff, sottolineandone
certi aspetti grotteschi o sublimandone la dinamica mediante la
performance mimica. A Licia Amarante e Antonella Valitutti va il
merito di averlo presentato al pubblico salernitano, alcune sere fa,
nell'ambito della rassegna “Out of Bounds”, quarta edizione.
Un dramma corale della solitudine
prende vita in "Chiromantica ode telefonica agli abbandonati
amori", uno spettacolo di e con Roberto Solofria e Sergio Del
Prete, basato sulla felice fusione dei testi di quattro autori
contemporanei, attivi a Napoli soprattutto negli anni Ottanta del
Novecento, fautori di un linguaggio innovativo e dirompente rispetto
alla tradizione rappresentata da Viviani, De Filippo e altri. Nella
loro interpretazione così intensa, che il pubblico salernitano ha
avuto modo di apprezzare, lo scorso 15 febbraio, presso lo Spazio
Santa Apollonia, nell'ambito dell'attuale edizione della rassegna
teatrale Out of Bounds, curata da Licia Amarante e Antonella
Valitutti, i due attori danno vita a figure legate al mondo dei
travestiti, messi ai margini di una società pur sempre imperniata su
una contrapposizione rigorosamente dualistica dei sessi e costretti a
sopravvivere ricavandosi un ruolo motivato proprio da ciò che quel
dualismo contraddice e viene confinato nell'ombra, nella
clandestinità. Tutta l'azione si svolge dentro e intorno a una
gabbia che si fa metafora dell'emarginazione dei personaggi e
dell'impossibilità di uscire dalla loro condizione.
Prigionieri volontari di una casa o di un angolo di strada, da cui si allontanano
a malincuore, nella vana speranza che il miraggio di una vita
diversa, felice, si realizzi in quel luogo, anche solo attraverso una
telefonata attesa fino a farne il fulcro della propria quotidianità.
Su quel mondo tormentato, evocato dagli aspri versi di Enzo Moscato, scanditi a ogni intervallo come
una litania diabolica, potenziata dalle musiche originali Paky Di
Maio, si aprono finestre sulle vite di Marlene Dietrich, Rosalinda
Sprint, Jennifer, Gina, Tuna, Bolero e Grand Hotel, i personaggi
creati, insieme allo stesso Moscato, da Annibale Ruccello, Giuseppe
Patroni Griffi e Francesco Silvestri, sebbene, in quest'ultimo caso,
sia stato necessario un piccolo adattamento, in quanto nell'opera
originale, “Streghe da marciapiede”, si tratta di donne che,
esercitando la prostituzione, si ritrovano comunque immerse in un
contesto abbastanza simile a quello dei travestiti.
I personaggi sembrano prendere forma
passando da una sorta di stadio primordiale, animalesco: i due
attori, rannicchiati a torso nudo nella gabbia, si insaponano
compulsivamente la faccia e si radono, fino a rivelare dei volti che
ostentano un pesante, eccessivo trucco femminile. Come creature
favolose messe in mostra in un baraccone, i due sgusciano dalla
gabbia per inscenare scampoli di vite che li vedono ora fronteggiare
le difficoltà della loro condizione, come la diffidenza o l'ostilità
del vicinato o l'abbandono da parte di amanti vanamente minacciati di
essere smascherati, ora trasportati dal sogno della normalità, di
una vita di coppia stabile, incoraggiata dai consigli di figure
esperte, trasfigurate ironicamente in un'aura di santità, oppure
soltanto sognata, magari intravista attraverso improbabili pratiche
divinatorie in un fondo di bicchiere. In quest'ultimo caso incorrendo
in comici intoppi che alludono all'incapacità di evadere che azzoppa
perfino la fantasia e riconduce inesorabilmente
alla gabbia, nella posizione iniziale.